L'articolo è stato letto 973 volte
Nazionale • Italia

facebook
twitter
0
linkedin share button

Massimiliano Ruzzeddu: sostenere i talenti e la leadership femminili

Empowerment o Emancipazione? Il termine italiano non rende giustizia ad un movimento, quello delle donne, che è andato ben oltre la semplice emancipazione.

Il termine emancipazione era piuttosto in voga negli anni '60, quando il dibattito verteva essenzialmente su questioni di costume, o, più precisamente, sull’adeguamento del diritto formale a dei cambiamenti di costume nei rapporti fra generi che si faceva sentire sempre più prepotente. 

Un tipico esempio del contesto in cui il termine ‘emancipazione’ era principalmente usato, è una scena del film "Divorzio all’italiana" del 1961: dopo la fuga di Rosalia Cefalù con il suo amante, che aveva destato uno scandalo spaventoso in una sonnolenta cittadina siciliana, nella sede del locale Partito Comunista un funzionario proveniente dal nord si rivolge ai militanti invitandoli ad esprimere il loro parere sulla vicenda alla luce, appunto, della questione dell’emancipazione femminile. I commenti poco lusinghieri con cui i militanti definiscono Rosalia Cefalù erano ovviamente un espediente del regista per mostrare l’arretratezza del mezzogiorno in quegli anni, ma va notato che  la questione sia stata posta da un uomo ad una platea di soli uomini e in un partito nel quale, come mostra Balestracci, "il tema dell’emancipazione femminile rimaneva nei fatti, sia dal punto di vista dell’organizzazione del partito sia sul piano della strategia politica, subordinato agli obiettivi della stabilizzazione sociale – e della famiglia" (Il Pci, il divorzio e il mutamento dei valori nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, in Studi storici Fascicolo 4, ottobre-dicembre 2013). 

In effetti, in un contesto dove il diritto familiare sanciva legalmente la figura del "capofamiglia" e disciplinava il delitto d’onore, dove alle donne era precluso l’accesso a gran parte delle professioni, dove la maternità fuori dal matrimonio implicava una irrevocabile emarginazione sociale, è chiaro che il fronte della lotta non poteva che essere quello di una equiparazione delle donne agli uomini, eliminando quei vincoli giuridici che già allora apparivano odiosi ed anacronistici. 

Tutto questo rende chiaro il contesto socio-politico in cui il termine "emancipazione" diviene popolare: in tale contesto, vale peraltro la pena di notare come le battaglie per l’emancipazione si distinguano a quel tempo per uno scarso protagonismo femminile, non tanto in termini di donne politiche individualmente considerate (prima fra tutte Nilde Iotti), quanto per un’assenza piuttosto evidente di soggetti politici organizzati che si pongano quello specifico obiettivo politico. 

Altrettanto evidente è come, nel decennio successivo, contemporaneamente all’emergere di gruppi e movimenti dichiaratamente femministi, il termine "emancipazione" sia praticamente scomparso. Solo per fare un esempio, nel famoso "Manifesto di Rivolta Femminile" del 1970, ad opera di Carla Lonzi, non se ne fa menzione, mentre, al contrario, si critica aspramente qualunque tentativo di assimilazione; per esempio: ‘La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.’ 

I contenuti delle battaglie delle donne diventano ora più profondi ed al tempo stesso più complessi, sottolineando le differenze fra uomini e donne e rivendicando cambiamenti dell’intera organizzazione sociale affinché tale differenza potesse venire riconosciuta. 

Se, quindi, l’emancipazione consiste in una integrazione della donna in un mondo creato dagli uomini per gli uomini, il femminismo dagli anni ’70 in poi lotterà per una società che riconosca e valorizzi le differenze. Vedremo meglio dopo quali conseguenze questo cambiamento di prospettiva ha determinato; qui è importante sottolineare le ragioni per cui si userà il termine empowerment anziché la sua traduzione "Emancipazione".

D’altra parte, è evidente che ai nostri giorni, il movimento delle donne ha raggiunto una consapevolezza e maturità tali che solo il termine empowerment, con riferimento proprio all’idea di potenza e di potere, può rendere adeguatamente.

Un esempio, è l’evento che il Ministero delle Pari Opportunità ha organizzato- virtualmente- lo scorso 16 marzo in occasione della presidenza Italiana del G20 e parallelamente alla 65 sessione della CSW Empowerment femminile nell’agenda dell’ONU e del G20: politiche per sostenere i talenti e la leadership femminili e per il contrasto alla violenza di genere.

Già dal titolo di questo evento, nonché della Sessione Onu ("Policies to support women’s talents and leadership and to counter gender-based violence") è evidente il cambiamento di prospettiva che si è verificato in questi ultimi decenni: dalla parità formale nell’accesso alle professioni alla rivendicazione di un accesso egalitario nelle élite globali. Chiaramente, come recita la seconda parte del titolo, siamo ben lontani dall’aver risolto ogni forma di discriminazione di genere: le donne continuano a subire violenza ed emarginazione sociale; ma il cambiamento epocale di eventi come quello che sto descrivendo è l’intenzione di rafforzare la parità di genere negli organismi decisionali nazionali e sovranazionali proprio per elaborare strategie di policy che affrontino tali problemi. 

In tal senso, sostiene la Ministra delle Pari opportunità Elena Bonetti, le aree di intervento in cui è necessario intervenire sono le seguenti: 

  • aumento delle immatricolazioni di donne nei corsi di laurea nelle cd. "scienze dure" (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica, in inglese STEM) e della alfabetizzazione digitale per donne; in effetti, i corsi di laurea scientifici garantiscono nella media un maggior tasso di occupazione alla fine del percorso di studi: spingere più donne ad immatricolarsi in facoltà come ingegneria, informatica o, per esempio, farmacia, da una parte favorirebbe il protagonismo delle donne nel mondo del lavoro, dall’altra aiuterebbe a smontare quegli stereotipi che vedono le donne adatte ad ambiti formativi umanistici e, di conseguenza, a collocazioni lavorative di carattere essenzialmente didattico. D’altra parte, una politica di educazione continua finalizzata all’acquisizione di abilità informatiche e digitali - ovvero al superamento del gap digitale di genere - potrebbe permettere anche a donne che hanno già concluso il loro percorso formativo di essere maggiormente competitive sul mercato del lavoro migliorando la loro posizione occupazionale nonché, più in generale, di accedere ad una quantità di informazioni e di notizie altrimenti impensabile. In altre parole, un numero maggiore di donne avrà la possibilità di ricevere un'istruzione professionale a distanza, di essere informate sui loro diritti ed opportunità ecc. 
  • avanzamento delle donne in posizioni di leadership nel settore privato: è importante che la parità in genere nel mondo lavorativo non si realizzi solo nella fase d’ingresso, ma lungo l’intero percorso professionale; questo significa in altre parole garantire alle donne le stesse possibilità di carriera degli uomini e pari opportunità di accedere a ruoli apicali. Non si tratta solo di una questione di giustizia in termini astratti, ma di un’occasione di sviluppo per l'intero tessuto sociale: permettere alle capacità, ai talenti e alla leadership femminile di scriversi liberamente costituisce un formidabile strumento di progresso economico e sociale per tutta la società.
  • Conciliazione fra tempo di lavoro e tempo di vita: è opportuno che l’organizzazione e la legislazione lavorative consentano una flessibilità a più livelli - smart working, part time, congedi parentali, politiche fiscali ecc. estese sia a donne che a uomini- affinché il lavoro di cura e le responsabilità familiari siano conciliabili con le esigenze produttive e condivise equamente fra gli adulti del nucleo familiare.

Anche la struttura dell’incontro presentava dei punti di interesse su cui vale la pena di soffermarsi: esso infatti constava di tre sezioni. Mentre il primo era composto da donne che, in Italia o all’estero, ricoprono ruoli istituzionali, gli altri due comprendevano donne provenienti rispettivamente dal mondo dell’imprenditoria e dalla società civile. Mentre quindi nella prima sezione l’oggetto principale della discussione sono stati i provvedimenti a favore dell’empowerment femminile, sia a livello nazionale che sovranazionale, nel secondo il contenuto è stato quello della partecipazione femminile al mondo del lavoro, e segnatamente nel mondo dell’imprenditoria. Nello specifico, si è cercato di capire quanto sia difficile per una donna arrivare ai vertici decisionali di un’azienda, ovvero a fondare la propria azienda. 

Naturalmente, ogni paese in questo settore fa storia a sé: essendo caratterizzati da strutture economiche, sociali a culturali molto differenziate, gli ostacoli che le donne incontrano in tal senso possono essere dei più disparati. Ecco perché gli interventi in tal senso erano tutti concordi sulla necessità di una stretta cooperazione fra il settore privato e la politica per promuovere azioni di sostegno all’occupazione femminile, non solo al momento dell’ingresso, ma lungo tutto il percorso lavorativo. Parallelamente, appaiono necessarie misure particolari per accesso al credito all’imprenditoria, sempre comunque in relazione al contesto economico locale, che vede regolamentazioni spesso confuse ed eterogenee. 

Altro aspetto rilevante affrontato in tale sezione sono stati gli effetti della pandemia sull’occupazione femminile. Se come è purtroppo più volte stato rilevato, il COVID ha colpito in maniera sproporzionata l’occupazione femminile rispetto a quella maschile, in alcuni paesi si è notato che questo è stato uno stimolo perché molte donne si organizzassero e cominciassero, dopo aver perso il lavoro, un percorso imprenditoriale. Dal punto di vista della società civile, invece, la discussione verteva sul problema che ancora, a livello globale, inquina le relazioni fra generi: quello della violenza sulle donne. Si tratta di un fenomeno che ancora interessa paesi ad ogni latitudine e di ogni eredità culturale, anche se molto sta cambiando nei termini con cui questo fenomeno viene sanzionato legalmente e viene rappresentato. 

Proprio sulle rappresentazioni culturali, peraltro, si è insistito spesso in tutte le sezioni: praticamente tutte le culture del pianeta hanno un’origine patriarcale e di conseguenza vedono la donna come un essere sottomesso, inferiore intellettualmente se non moralmente all’uomo e comunque inadatto a prendere decisioni e ad assumere ruoli di leadership. 

Tali rappresentazioni hanno condizionato pesantemente le rappresentazioni del mondo sia di uomini che di donne (si può immaginare con quali conseguenze sulla loro autostima) e rimangono latenti anche se la comunicazione pubblica, in alcuni paesi, propone modelli di comportamento femminile molto differenti da quelli tradizionali. 

L’idea di una donna tendenzialmente incapace a assumere ruoli di responsabilità al di fuori della famiglia rimane, nonostante ciò, radicata - spesso inconsapevolmente - in molti gruppi ed istituzioni, contribuendo a creare quel famoso ‘soffitto di cristallo’ che rallenta se non immobilizza del tutto i percorsi professionali in tutti i settori della vita di una società, dalla politica, alle imprese, alla ricerca scientifica.

In un simile contesto, peraltro, anche i modelli familiari possono diventare un problema: il lavoro di cura all’interno di essa, in effetti, sia nei confronti della prole che dei parenti anziani, rimane quasi esclusivamente a carico della donna, non importa se questa sia impegnata in impieghi esterni, anche a tempo pieno, al pari del suo compagno. Si è quindi discusso, nella sezione della società civile, anche di politiche che incentivino un’equa distribuzione del lavoro casalingo. In tal senso, il congedo parentale obbligatorio sembra essere il primo passo: da una parte tale istituto riconoscerebbe formalmente un distacco della figura paterna dal modello del procacciatore di cibo, ovvero il responsabile dello status economico della famiglia, affermando un suo ruolo significativo anche nella cura dei figli, favorendo anche un miglioramento delle relazioni fra padre e figli/e, ancora troppo spesso inquinati da quella cosiddetta "mascolinità tossica" che richiede ad un uomo di far rispettare la propria autorità all’interno della famiglia attraverso l’uso della forza.

Dall’altra parte, il congedo obbligatorio di paternità permetterebbe alla donna, dopo il parto, di ritornare alla vita lavorativa in tempi rapidi, riducendo gli svantaggi che una prolungata assenza dal posto di lavoro potrebbe provocare in termini di avanzamento di carriera. Non ci sarebbe comunque bisogno di osservare che, accanto al pur necessario congedo di paternità obbligatorio, altre misure che il datore di lavoro, oppure le autorità di welfare dovrebbero adottare consisterebbero in asili nido aziendali, detrazioni fiscali significative per i figli/e ecc. 

Si comprende, di conseguenza, l’insistenza su percorsi culturali, ma soprattutto educativi, che propongano immagini della donna slegati dall’idea di sottomissione all’uomo e delle relazioni di genere basate sul rispetto e la reciprocità. Particolarmente importante è lavorare su questo livello, oltre che su quello giuridico-politico: sono tali rappresentazioni che orientano l’azione degli esseri umani e se uomini e donne riescono ad interiorizzare modelli relazionali appropriati, questo costituirebbe un argine alla violenza di genere ed alla marginalizzazione socio-economica della donna molto più efficace di qualunque sanzione giuridica. 

Al di là dell’importanza dell’incontro in sé, e di quello che si terrà con il G20, questo evento può essere l’occasione per riflettere sui cambiamenti e sui progressi del movimento delle donne negli ultimi decenni. 

Va sottolineato, inoltre, che una politica sovranazionale sui diritti delle donne deve tener conto delle norme eterogeneità della condizione femminile nel mondo: se praticamente tutte le culture tradizionali presenti sul pianeta hanno un carattere spiccatamente patriarcale, la lotta per il riconoscimento dei diritti delle donne conosce dei livelli di maturità estremamente differenziati da un paese all'altro.

Una politica globale per le donne non può che tener conto di tale eterogeneità, individuando le questioni che, in ogni singolo contesto sociale, maggiormente possono incidere nell'individuare le ragioni dell'emarginazione femminile e gli strumenti per il superamento di questa. Tali questioni sono quelle individuate dall'evento qui descritto, nei dibattiti sovranazionali diritti delle donne: essi sono la lotta alla violenza di genere e l’emancipazione economica femminile. Ogni miglioramento nella condizione femminile nonché il riconoscimento -sia giuridico che culturale -dei diritti delle donne non potrà che passare attraverso un riconoscimento di tali questioni e un impegno concreto per l'eliminazione della prima e la realizzazione della seconda.

Come si vede, siamo ben lontani dall'atteggiamento anticapitalista ed anti-istituzionale nel femminismo degli anni 70: si sta realizzando nostri giorni un circolo virtuoso, che vede le donne rivolgersi al mondo reale, proprio così com’è, per un superamento effettivo di una condizione di emarginazione non più tollerabile. Al tempo stesso, però, proprio attraverso il riconoscimento dei diritti e del valore delle donne, sta cambiando in meglio il mondo stesso, rimuovendo le ingiustizie che lo tengono ingabbiato da millenni.  

 

Massimiliano Ruzzeddu

Professore Università Niccolò Cusano 

Sociologo e Componente del Direttivo CREIS

 

2021 Copyright © - Riproduzione riservata
I contenuti sono di proprieta' di FFA Eventi e Comunicazione s.r.l. - PI: 05713861218
Vietato riprodurli senza autorizzazione
Utilizzando il sito Web di Economia News, l’utente accetta le politiche relative ai cookie.
Continua