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Emanuele Gatti: trasformare le buone pratiche emerse nell'emergenza in pratiche quotidiane

Un anno di pandemia da SARS-Cov-2 ha stravolto totalmente il normale ordinamento economico e sociale, ha lasciato dietro di sé gravi lutti, permanenti danni e macerie. E questa ondata di negatività non sembra essere del tutto finita, anzi.

Esistono problemi acuti che sono stati affrontati, e che in parte sono sotto controllo, ed altri su cui alacremente si lavora, ma alcuni strascichi a lungo termine di questa pandemia sono forse sottovalutati. Lasciarli a sé stessi porterebbe ad una loro cronicizzazione con una evidente maggiore difficoltà nella loro risoluzione. Naturalmente i più evidenti sono di natura sanitaria o economica.

Ancora non sappiamo quali saranno le cronicizzazioni dei disturbi organici o psicologici per i pazienti severamente colpiti da COVID e neppure sappiamo quanto il “deserto economico”, creatisi in alcuni settori dell’economia per lo smantellamento di alcune catene di approvvigionamento e produzione, avrà effetti sulla velocità di ripresa post-COVID. Dalla letteratura scientifica stanno emergendo i danni organici a lungo termine per alcune categorie di pazienti COVID (riduzione della funzionalità respiratoria o renale per esempio), mentre quelli di carattere psicologico, forse i più subdoli perché difficilmente individuabili e immediatamente correggibili, sono più ignoti.

Tuttavia, uno dei danni già evidenti della pandemia è la riduzione della “fiducia”: la fiducia nel domani, nella propria resilienza alle avversità, nelle istituzioni politiche e sanitarie, nell’informazione e quindi, alla fine, nel modello di sviluppo che abbiamo seguito finora. Stiamo vivendo un momento in cui si dubita di tutto. Potrebbe essere anche un fatto positivo se fosse declinato come “dubito ergo sum”, invece l’impressione è che la mancanza di fiducia si concretizzi in una critica disarticolata, superficiale e pessimistica su alcune assi portanti della nostra attuale convivenza.

Non sorprendono critiche pesanti alla gestione politica del momento, spesso funzionali ad interessi partitici, ma certamente preoccupano la sfiducia in alcune istituzioni fondamentali per la nostra ricostruzione anche sociale. Le recenti polemiche verso enti regolatori nella loro statutaria e meritoria attività di approvazione e vigilanza sull’efficacia e sicurezza dei vaccini ne sono un esempio illuminante.

La pubblica opinione si interroga al riguardo su questioni estremamente complesse senza la minima competenza o perlomeno senza tutti i dati a disposizione. Il risultato di tutto ciò porta ad atteggiamenti pericolosi per la stabilità del riconoscimento dell’autorevolezza delle istituzioni che nel caso specifico vigilano sul bene a noi più prezioso, la nostra salute. La mancanza (o la perdita) di fiducia nelle istituzioni comunitarie pone parecchie problematiche, che sarebbe difficile qui analizzare nel dettaglio, tuttavia la focalizzazione sui risultati dell’Unione Europea (UE) dovrebbe permettere per lo meno di spiegare definitivamente anche ai più scettici come una visione solo nazionalistica ed autarchica non sarebbe stata risolutiva. Senza voler negare i problemi, che tuttavia possono essere risolti, di carattere organizzativo, di “governance” e di competenza tecnica delle strutture dell’UE, bisogna ammettere che senza UE non sarebbero stati possibili né i poderosi interventi finanziari portati a termine finora e pianificati per il futuro né tantomeno la disponibilità in così breve tempo di farmaci o vaccini risultati efficaci e sicuri.

E qui si apre un altro tema relativamente alla fiducia, quello nei nostri sistemi sanitari. In particolare, quello italiano, sempre criticato e considerato spesso solo per gli episodi di “malasanità”, ha offerto una bella prova, di dedizione, di reazione, di capacità tecnica ed organizzativa nella gravità del momento e pur con tutti i limiti imposti dalla storia della sua organizzazione e dal suo finanziamento. I medici e gli operatori sanitari sono stati spesso considerati “eroi” per qualche settimana, per poi essere, come nel passato, dimenticati e non gratificati.

Il Sistema Sanitario Nazionale ha una enorme possibilità di miglioramento, questo è innegabile, ma non va né distrutto né rivoluzionato. Occorre dare agli operatori i mezzi ed i metodi che permettano loro di svolgere il lavoro con la stessa efficienza e capacità che hanno dimostrato nel periodo di pandemia.

Questi eccezionali risultati, ottenuti con pochi mezzi e tanta buona volontà personale, vanno resi strutturali, vanno dati loro gli “enablers” cioè i fattori abilitanti per trasformare le buone pratiche in pratiche quotidiane. Una cosa certamente abbiamo imparato: che le “uscite di cassa” sanitarie, al contrario di quanto sempre ritenuto negli ultimi anni, non sono “spese”, sono invece fondamentalmente “investimenti”.

In questi mesi abbiamo imparato con un terribile shock imprevisto che la buona salute fisica e mentale di tutta la popolazione è il cardine, il fondamento su cui si basa un’economia sostenibile. Quindi, cominciamo a togliere simbolicamente il nome “Azienda Sanitaria” dalle organizzazioni predisposte alla nostra salute (non solo alla nostra cura): un’azienda è qualcosa di “semanticamente” differente, di strutturalmente dissimile, di operativamente “altro”. Per un miglioramento sostenibile bisognerebbe agire su diversi piani, quello dei fattori abilitanti e quello dell’organizzazione della prevenzione e della cura. Ciò richiede un momento “costituente” da parte di tutti i portatori di interessi, sulla strategia da utilizzare per evitare di ridurlo, in modo semplicistico, alla scelta dell’una o dell’altra tecnologia per la digitalizzazione o del relativo “provider”.

Bisogna analizzare il modello “ospedal-centrico” che oggi prevale e magari traghettarlo in un efficiente sistema “paziente-centrico” basato sulla creazione di un valore per il paziente (e non solo per il contribuente, interessato alla riduzione dei costi). Il “valore”, commisurato ai costi sostenuti, deve essere misurabile, sia tramite i normali parametri clinici che con quelli di percezione del valore dei risultati e della prestazione clinica da parte del paziente. Ciò necessita oltre che di un’operazione culturale profonda, di un supporto teorico-pratico e di infrastrutture efficienti sia hardware che software. Per hardware si può intendere anche l’edilizia sanitaria, a partire dagli studi medici per finire agli ospedali o centri di diagnosi e terapia, per software sia l’infrastruttura digitale che la formazione abilitante all’utilizzo ed allo sviluppo successivo.

Nel recente passato abbiamo constatato come la medicina sul territorio sia vitale e non solo possa servire alla cura di per sé stessa ma sia abilitante per svolgere a valle delle operazioni complesse sul paziente. Essa non deve essere solamente il filtro, la risoluzione del problema clinico di minore rilevanza, ma deve essere integrata con i successivi passi di cura e ricevere e dare informazioni ai colleghi che si prenderanno in carico il paziente. Pensare che l’aggiungere all’attuale organizzazione sanitaria una ulteriore disponibilità economica risolverà i problemi è solo una fuga in avanti: occorrono invece riforme strutturali con adeguati e commisurati mezzi tecnologici e finanziari.

Un altro elemento abilitante fondamentale in questa fase è la formazione personale sia tecnologica che “umanistica”. La rivoluzione tecnologica (chiamata digitale in senso riduttivo) introduce modalità di comunicazione, di lavoro, di rapporti personali e sociali completamente innovativi e differenti. Occorre un sensibile cambiamento nell’atteggiamento nei confronti sia della tecnologia che della “società”. I due elementi non sono separabili, perché ogni rivoluzione tecnologica, ed ora stiamo parlando della quarta, porta con sé profondi cambiamenti nella società che vanno compresi, analizzati e gestiti. Per questo elementi fondamentali sono la scuola di ogni ordine e grado, l’istruzione superiore e la formazione permanente. Enormi potenzialità vengono anche qui offerte dalle nuove tecniche di insegnamento e dai supporti digitali per implementarli. Tuttavia, la cultura dell’uomo, “umanistica” in questo senso, è fondamentale per il corretto governo di questi cambiamenti. Le sue profonde radici europee sono spesso criticate per il loro eccessivo peso economico e per la complicazione che portano in alcuni aspetti decisionali, ma sono anche la base dei nostri “Stati di diritto” e della nostra giustizia sociale, valori fondanti del vivere nel nostro continente.

In questa fase il ruolo della politica saggia e preveggente potrebbe essere quindi quello di concentrarsi sui fattori abilitanti e non invece su precisi obiettivi di sviluppo dirigisticamente definiti. I due fattori abilitanti brevemente analizzati, quello della disponibilità di un servizio per la salute efficiente e sostenibile e quello della formazione sono solo 2 esempi di ciò che si potrebbe fare per rendere possibile una crescita socialmente equa e rispettosa dei diritti delle future generazioni e del nostro pianeta. Se ne potrebbero aggiungere molti altri, per esempio, la capacità di legiferare con veloce emanazione dei provvedimenti attuativi, l’interconnessione di infrastrutture di comunicazione e di logistica, la sicurezza dei territori e quella informatica, la semplificazione fiscale, la capacità e facilità di trasferimento tecnologico, l’impulso alla reindustrializzazione del Continente, il supporto continuo all’internazionalizzazione, l’aiuto nella modernizzazione delle imprese e la spinta poderosa all’investimento privato nei settori produttivi. Ma tutti questi elementi, e specialmente l’ultimo, si riconducono alla fiducia, di cui si è già trattato. Fiducia che la popolazione, che diventa imprenditore ed investitore, ricoprirà nella capacità delle istituzioni di capire le reali esigenze sul terreno ed a operare per la loro risoluzione in modo accettabile e sostenibile.

 

Emanuele Gatti 

Presidente ITKAM

Camera di Commercio Italiana per la Germania

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